Cuba. Playa Varadero. Longitude: -8125139 Latitude: 23.15361.

Ingoio con gli occhi il tramonto sul Mar dei Caraibi. Suonano tamburi lontani. Li ascolto qui disciogliersi ibridi sulla mia pelle, mentre dipingono suoni distorti intrisi a meraviglia. Li lascio riempire questo vuoto di stanze che odorano di nulla. Li accolgo penetrarmi nei timpani mi lascio trasportare nell’enfasi di sogni dipinti dalla voce di un angelo che sottile stordisce. Percuote. Sevizia. Rimbalza. Inonda. Di un’energia così pura e palpabile, vivace e nostalgica. Mistica. Sembra un peccato, da strappare coi denti. Ho lasciato Parigi che stava scendendo la sera. Un volo nello spazio dei fusi orari e il sole s’innalzava di nuovo nel cielo. Non ho visto il buio per ore interminabili. Interminabili ore di vuoto. Sensazione di stordimento. Il sole ci ha sorpresi così, con ferocia sulle ali. Quasi bruciava. Le tendine dei finestrini abbassate. Le cuffie nelle orecchie tamponavano il ronzio dei motori. Mangiavo noccioline nervosamente. Paralizzato sul seggiolino appeso a una cintura di sicurezza. Mi ripetevo di stare tranquillo ma io non riesco a sentirmi tranquillo quando i miei piedi non toccano terra. Volavo da dieci minuti e già mi sembrava un’eternità. Restavano solo altre dieci ore di volo. La cosa migliore è mettersi a proprio agio. Così ho tolto le scarpe. E ho infilato i piedi nella tasca del sedile davanti come mio solito fare. L’unica posizione vagamente comoda che mi permetta di dormire in volo. Ho messo gli occhiali da sole. E ho cercato di immaginarmi le spiagge deserte sulle quali sarei atterrato ore dopo. Immaginavo la costa caraibica vista dal cielo. E le noci di cocco. E la mia rinascita. E i volti della gente. E l’aria soprattutto. Pura d’ossigeno. La sentivo nei polmoni. E tutto ciò che sarebbe successo.

Alla mia destra nella fila laterale un bambino viaggiava da solo. E aveva il viso spaventato. Eppure era lì. Verosimilmente pacifico. Forse va a riabbracciare sua madre, pensavo. O suo padre. Forse è una vittima inconsapevole di una relazione incerta. Di un rapporto a distanza. Di una pratica burocratica. O del turismo sessuale. Mi chiedevo se era giusto il prezzo da pagare. Salire da soli a dieci anni su un volo diretto al di là dell’oceano. Mi guardava ogni tanto. Curioso. Forse si chiedeva qualcosa di me. Dove fossi diretto o perché viaggiassi da solo. Forse, si chiedeva se io fossi come lui. E se avessi anch’io paura. Gli dicevo di si. Non muovendo la testa, ma in un sorriso appena appena accennato. E lui sembrava capire. Rassicurato. Appoggiava la testa sullo schienale. Alla mia sinistra un signore leggeva il giornale. Cercando di fare conversazione. Borbottava qualcosa in francese ed io rispondevo in altre lingue che non erano la sua. Di fianco a me un tedesco studia spagnolo su un libro a fumetti. Ha mani enormi. Braccia robuste. Mi parla ma io non capisco. Sorrido. Vorrei mi abbracciasse. Solo per sentirmi tranquillo e meno solo. Da solo in un viaggio di 22 ore la testa vortica precipitosamente in pensieri che rasentano puri momenti di squilibrio paranoico. L’ascolto interiore sale all’eccesso. Avrei voluto trovare un pulsante e spegnermi. Per riattivarmi in fase di atterraggio. Dopo un viaggio da incubo mi sono svegliato in un sogno. L’alma de Cuba mi avvolge. Ventidue ore sveglio. Tre ore in coda al controllo immigrazione. Il senso di svenire. Non posso farcela. Però ci sono. Il mare di cristallo. Ha il colore più immenso che io abbia mai visto. Mi ricorda i suoi occhi. Le piogge tropicali rapide e improvvise. La periferia dell’Havana che scorgo di notte dal vetro. In stato di allucinazione da privazione del sonno. Percepisco. L’odore di gomma bruciata. L’incubo sul taxy. I cartelli rivoluzionari. Le carrozze coi cavalli. Le auto sudamericane. La gente a piedi per chilometri. Popolo in pellegrinaggio. L’assenza di carburante. I sigari. Le case particulares. Le palme reali. Gli alberi di Mariposa. La sabbia di Cayo Coco. La dogana a Varadero. Prigione per turisti. Ci hanno scissi e poi tagliati. Radunati come bestie. Gli occhi dei cubani. I sorrisi dei bambini. Che Guevara immortalato ovunque come un dio senza tempo. Il caldo allucinante. The Phantom Of The Opera dalle casse della piscina. Tres Cuba Libre por favor. La testa che gira. La stanza verde e gialla. The Fall Of Man a repeat nello stereo. La pelle scottata dal sole. Il volto bagnato dall’umidità. Un matrimonio ai Caraibi. L’immensità dell’Atlantico. Il Tropico del Cancro. Il lento disciogliersi di ogni nodo nell’anima. Il senso di libertà. Avrei potuto fare qualsiasi cosa. La visione dell’assoluto penetrava negli occhi. Le lacrime libere di scendere lontano da quel mondo che non vuole vederle. La carica erotica della pelle abbronzata. La pina colada. Il mischiarsi di razze. Il Daikirì. L’ho incontrato il mio angelo. Si chiama Ivàn. Ha il volto di un bambino, e gli occhi scuri che hanno visto l’infinito.