Di inferni narrai già di loro la grazia e di essi gli oscuri pendii.
Decantando la vita attinta dalla fonte, di noi il dolore.
Rivolto al cielo questo sguardo, pullulante,
radioso d’emozione che mai morì al passaggio degli inverni.
Delle promesse ricevute in dono, semi piantati
dentro me. Profondamente.
Di tutti i brividi trattenuti sotto pelle.
Delle vene che ho tirato come funi per strapparmi via da te.
E il disciogliersi di ogni silenzio all’eco di eretiche
preghiere sussurrate a fior di labbra.
Il liquefarsi di ogni lancinante grido che ci ha
spinti nel massacro.
Quante volte poi ci siamo fatti beffa di noi stessi
raccontandoci le nostre atroci verità,
violentandoci nell’anima a colpi di pugnale.
Quale sadica dolcezza.
Belli gravidi e storditi dalla corsa verso il niente
nel tumulto della vita così gonfi ed eccitati.
Sempre in volo. Sempre uniti.
Perduti e ritrovati.
Quelle volte che le mani hanno chiesto il calore
della pelle che non c’era. Respirare aria.
Tutta l’aria che mancava. Ingoiare aria. Diventare aria.
Scivolare, essere vento.
Ritrovarci ancora. Nella folla e nel deserto degli
intrepidi passaggi verso la nostra affermazione.
Finché fermandoci stremati con occhi dentro
agli occhi ci siamo visti grandi e lontani da quel mondo
che non ci apparteneva.
In fondo ciò che vuoi lo avevi già.
Bastava solo strappare via quel velo.
Sottile timidezza che arrestava di noi l’intraprendenza.
Ma sai non era facile guardarti senza il rischio d’impazzire.
Di diventare atroce e poi contorcersi.
Col nodo in gola. Nell’aritmia d’involontari battiti.
Convulsi tremiti. Incontrollati spasimi.
Per la bellezza che porti dentro agli occhi.
Che emanano stonate, paralizzanti vibrazioni.
Nell’immortalità di questa notte io vorrei,
portarmi avanti proiettarmi oltre le distanze,
le distorte percezioni che dividono.
Divorano.
io Sono ora l’armonia di un suono concavo.
Chiuso, a guscio, su di te.