Quello che sono ha il mio nome.

Mese: Luglio 2007

[Deliri Ordinati]

L’ultima volta che ho scopato ho pianto. Non l’ho mai detto a nessuno. Fanculo cazzo. È stato quando sono venuto. Sono scoppiato in singhiozzi incontrollabili e versavo lacrime dagli occhi come un bambino tradito. Dev’essere stata l’intensità dell’orgasmo. La completezza del tutto. Il risvegliarsi improvviso di un’energia straordinaria e fantastica. E la coincidenza con un attimo di debolezza. Inutile starci a pensare. Ambien. Rimedi pratici alla mancanza di sonno. Un sonno senza sogni. Un sogno senza sonno. Mischio benzodiazepine e loro antagonisti come latte col miele. Inibitori della ricaptazione della serotonina tra le sinapsi di un corpo di pura emozione sedata. E poi spari di chimica direttamente nel cranio. Dosando il tutto con cura e attenzione. Senza commettere errori. Rimedi pratici all’inquietudine. All’ansia di vivere. Sempre. Tutto. Come se fosse la fine. Come se il pendolo di un gigantesco orologio stesse per battere il suo ultimo rintocco direttamente sopra la testa, schiacciandoci. Mi alleno costantemente a lasciar scivolare gli scombinati flussi di quel maledetto intruso denominato pensiero. Un vortice senza controllo. Una centrifuga senza fine.

Lasciare che fluiscano. A volte affondo nella presunzione di aver acquisito l’abilità di riuscire a gestirli con tanta arcana maestria. Gabbie ottagonali. Ne ho viva memoria. Ne rivivo le sbarre taglienti di quando ci sbatti la faccia in sadici tentativi di uscirne fuori. Anche l’acciaio si spezza. Al contrario di quanto si creda. Il segreto è diventare un acido potentissimo e mantenere alta la reazione esotermica, per qualche momento. La lotta è sempre la stessa, quella di noi contro il tempo, che nel mio credo non esiste. Allora perché continuo a contarlo sulla punta delle dita in attesa del mattino? Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Rintocchi di campane. Funerali in piena notte. Puoi scorgerne il corteo fra le ombre della mente. Spari col silenziatore. Acrobatiche silhouettes di cadaveri danzanti nello spazio sovrastante. Forse dovrei unirmi al brusio delle voci. Lanciarmi nello slalom delle vetrine di luci. Sorridere a qualcuno che mi urta la spalla. Non so. Mi troverei a camminare in una realtà parallela. A metà strada tra l’onirico e l’incubo. Tra il ridicolo e il magico. Mi sentirei spiato da forze aliene. Dannata chimica. Mi fotte sempre.

Vorrei fossi tu la mia chimica. Una miscela finissima. Inalazione d’ossigeno. Esalazione d’euforica tossicità contenuta. La piena forza di un lisergico acido in circolo in queste vene di rabbia completamente sedata. La via d’uscita. In questa mente assediata. Vorrei fossi tu la mia chimica. L’energia liquida di queste mani prive di moto e di fisica. Radiosa e vibrante emozione di questo volto, privo di toni e di plastica.

Ore zero e zero zero. In questo niente assoluto. Dove organizzo i miei virtuosi deliri, ordinati e connessi. Un torreggiante zero sospeso nel nulla. Da trafiggere di spilli. Come fosse un gigantesco palloncino galleggiante nel ciclico riflusso di un’aria ormai tossica.

E la penna diventa tagliente. Le parole sopra la pelle. L’inchiostro che ci metto dentro. Scinde molecole. Scompone logiche. Dirige orchestre fantasma, arbitra squadre di spettri.

Scivolando su stele di grano il pensiero si desta col vento. Se fosse niente. Se ciò che aspetti da me fosse davvero importante. Non aspettarti niente. Solo coinvolgerci in piccoli vortici improvvisati e diretti in maniera orchestrale, dai suoni orchestrosi del leggero trasporto che ora fascinati subiamo. Scrivere. Violenza. Uno stupro auto-inflitto. Rivedersi poi nudi solo carne su carne. Solo pelle su pelle. Solo fiato su fiato. Solo cuore su cuore. Solo membra su membra. Solo occhi su occhi. Solo arti su arti. Quello che resta. Questo buio che sveste. Questa pelle che macchia. Quest’inchiostro che pulsa, come sangue ancor caldo. Goccia a goccia. Questo grido che implode. Troppo forte. Troppo intenso. Troppo audace. Non avere paura. L’espressione è speranza. L’emozione è tremore. Il tremore è la vita. Vibrazione, nella paralisi dell’esistenza.

Riposa il tuo cuore bambino e nascondi la pelle lontano da queste mani prive di tatto. Non aspettarti niente. L’amore non è qualcosa che meriti. È qualcosa che hai, oppure no. E se fossimo seme sbocceremmo in germogli per poi crescere piante ed esplodere in fiore. Ma siamo solo aria già satura che ruba i colori di un mare lontano che non ne aveva mai visti. Nell’ingordo e accalorato impeto di stendere un passo più avanti dell’altro. Nel fuoco bruciamo.

Se dio scopasse col diavolo sarebbe un incesto. Una gloria mai svelata e da sempre bramata. La nostra è da sempre una natura feticcia.

L’amore è un albero senza radici. Fibra di vetro finissima. Averti oltre e attraverso questa corteccia di fibra sintetica. Oltre. Questa scissione. Oltre. Il discioglimento e la sintesi. L’amore è quel punto senza nessuna reazione. Una molecola immobile in un’implosione di chimica.

 .Oltre non resta niente.

Al tuo ritorno sarò talmente lontano da non poterti raggiungere.

[Deliri Ordinati]

Vorrei fossi tu la mia chimica. Una miscela finissima. Inalazione d’ossigeno. Esalazione d’euforica tossicità contenuta. La piena forza di un lisergico acido in circolo in queste vene di rabbia completamente sedata. La via d’uscita. In questa mente assediata. Vorrei fossi tu la mia chimica. L’energia liquida di queste mani prive di moto e di fisica. Radiosa e vibrante emozione di questo volto, privo di toni e di plastica.

[Non ci sono spigoli nella mia mente. Un immenso. Manicomio. Circolare.]

[È per Noi che l’ho Fatto]

[Centocinquanta chilometri orari in tunnel infuocati d’albe senza sole eppur piene di luce. Tutti quei brividi giù per la gola. Suoni acutissimi di chitarre di vetro. A dispetto della vita la quale non poteva far altro che odiare la nostra dannata immortalità. La nostra solitudine perfetta. D’ irraggiungibili noi, dalla bellezza ingravidati.]

Questo eravamo.

è per noi che l’ho fatto.

Perché ci saranno cose che mi mancheranno sempre. Ci saranno posti al mondo che mi mancheranno sempre. Ci saranno certi sguardi e certi piccoli sorrisi che mi mancheranno sempre. Ci saranno persone che ho lasciato lontane nel mondo che mi mancheranno sempre. Sempre. Ci sarà il mondo a mancarmi sempre. Ci sei tu, soprattutto tu. Che per quanto possa essermi vicino mi mancheresti sempre. Mi mancheresti anche adesso. Anche addosso. Anche dentro. Ci saranno sempre quei limiti, quei fottuti limiti oltre i quali io avrò sempre paura di spingermi. Ci saranno sempre questi luoghi, queste genti, che non mi basteranno mai. Come se tutto intorno avesse cominciato a restringersi. Il tempo stesso non mi basterebbe. Gli spazi sembrerebbero piccoli. Dovrei persino limitare il mio dare. Nemmeno quello mi basterebbe.

[Il Senso del Niente]

Questa notte è un parto non assistito. Senza alcuna anestesia. Liberarmi, questo vorrei. Frantumarmi come un oggetto voluminoso e frangibile. Liberare l’essenza di me. Stringere in mano una mazza dentata. Distruggere corpi solidi a caso capitati in traiettorie di tiro incalcolabili. Violare così la perfezione di un attimo in cui c’era dentro tutto. Rinascere da un parto al rovescio, non assistito. Senza alcuna anestesia. Poi stremato alla fine del giorno scivolandoti addosso ti direi, piccolo stringimi. Con occhi di luce. Ti direi questo. Con occhi di luce. Questo cuore che esplode di colpo e senza preavviso, in ridondanti battiti, rivelandosi in assordanti silenzi e poi asincrone e generate implosioni atte a soffocare, a lenire dentro se stesse. Raccontiamoci un sogno. Prima ancora che il giorno ci colga fantasmi di un tempo che non fu da mai il nostro. Portandoci altrove a dormire. Questa mano vorrebbe toccare i tuoi petali sanando la vita che perdi dai graffi invisibili che porti, nel tuo dentro, culla di mille tempeste che dominasti tenendo le redini come funi di sangue evitando il naufragio. Ritrovar la purezza rubata da rapidi treni in veloci partenze. Ritrovarti. Questo vorrei. E ridarti a te stesso. Resto immobile e ascolto.

Come posso spiegarti il senso del niente, il vuoto che lasci quando non ci sei. Questi vetri infrangibili che dividono il tutto dal niente. Gli spessori non misurabili del sentire umano. Il calore che manca. Respirarti dal vetro sottile di una finestra che si affaccia su un mondo di plastica. Ha ripreso a piovere. Gocce in volto che sfiorano labbra mordicchiate coi denti in nervose distrazioni atte a palliare forme concrete di astruse verità, più cruenti e ingannevoli. Tuona e ho paura. Svegliami.

Come posso spiegarti il senso del niente, di una vita fatta di strade e di ponti, fra sguardi fuggenti di volti nell’ombra, dove si cerca una gloria dosata in secondi. Da collezionare. Di mani sui cazzi rigonfi di vanto, di vene che pompano sangue nel glande. Sapori che scordi nel giro di un attimo, di un viso soltanto, che è unico al mondo. Cercato fra mille e mai più ritrovato. Come posso spiegarti il mio senso e il mio niente. Di un cuore bastardo con graffi felini, che incide parole d’amore sul petto. E le firma con gusto in un sadico ghigno. Devo andare. Aspettami.

Vorrei tanto capire cos’è che impedisce di metterci in moto e partire, la natura invadente di questa tendenza a rimandare sempre tutto a domani. Non me lo so spiegare. Non è sempre stato così. Lo è stato solo a momenti. Ma ora è un momento che sembra durare da troppo. Sembra davvero che non ci sia mai tempo, in eterna attesa del momento ottimale per agire. Quasi fosse una convergenza cosmica, un allineamento planetario, un’eclisse. Sappiamo arriverà quel momento, ma non è adesso.

Se poi ti confronti con gli altri è la fine. Devi per forza pensarti unico e solo, sei costretto. Perché se espandi il pensiero nell’otre includendoci gli altri, finisce che cadi nel baratro del confronto, ti senti diverso da tutti e succede che muori ogni volta. Se ti pensi da solo riesci a gestirti, ad includerti dentro un pensiero cosciente e arginato, ma la mente non può contenere il pensiero di un mondo diverso da te. Devi per forza pensarti diverso e speciale, mirare e sparare a te stesso. È l’unico modo per restare lucidi. Evitando il genocidio.

So che a volte non mi credi per niente. Ti presterei gli occhi se potessi, per dimostrarti che quello che vedo è concreto e reale. Ti vorrei vestire con questa pelle. Per farti sentire che un brivido a volte brucia come l’alcool sopra una ferita. So che a volte non mi credi per niente. Certe volte non mi credo neanch’io. Ne ho bisogno per convincermi che certe ombre non ci hanno mai inseguiti. Ma cosa dovrei fare. Dilettarmi forse in suasivi monologhi assumendo seriose espressioni? Piuttosto sto zitto. Lasciandoti credere la bugia più vera. Non posso spiegartelo il senso del niente. Davvero, non posso.

Nello specchio un riflesso corroso e sbiadito mi guarda e mi chiede ricordi com’eri?

Ti ho già dato la faccia e i miei occhi e mi restano solo barbagli di luce stonata e distorta. Ho lasciato che il buio stillasse e assorbisse di te fino all’ultima goccia. Il contrasto del bianco sul nero sfumava nel nulla e tu ancora dormivi. Non ricordo più niente. Certe notti il silenzio è più fitto del nero che porti nel contorno degli occhi. Quelle notti in cui affondi e faresti qualsiasi cosa pur di ritrovarti. Certe notti mi parli all’orecchio suasivo e mi stringi la mano ed io immagino un mondo lontano. Dove vedo i tuoi sogni animarsi innocenti e giocondi i tuoi occhi di bimbo rincorrere sguardi inconsueti e distratti. E il tempo collide in orgasmi di luci radiose irrorate dai colori che crei. Poi ti volti e mi vedi lontano. Poi sorrido e non sono con te. Non fermarti. Rimani.

L’evidenza si fonde e si accorda con le note che il cuore vorrebbe sentire. E il cuore distorce il sottile vibrare dell’anima assorta in distratte euforie. Si nascondono intorno ai fantasmi di sempre. Non seguirmi. I miei passi conducono verso sentieri nebbiosi e incerti.

Certe notti mi parli all’orecchio suasivo e mi stringi la mano ed io immagino un mondo lontano. Ma non posso restare. Devo andare. Non dovresti aspettarmi.

Come posso spiegarti il senso del niente. Di un treno che transita senza arrivi e partenze. Tutti i pezzi mancanti. Gli impossibili incastri. Davvero vorresti restare?

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