Questa notte è un parto non assistito. Senza alcuna anestesia. Liberarmi, questo vorrei. Frantumarmi come un oggetto voluminoso e frangibile. Liberare l’essenza di me. Stringere in mano una mazza dentata. Distruggere corpi solidi a caso capitati in traiettorie di tiro incalcolabili. Violare così la perfezione di un attimo in cui c’era dentro tutto. Rinascere da un parto al rovescio, non assistito. Senza alcuna anestesia. Poi stremato alla fine del giorno scivolandoti addosso ti direi, piccolo stringimi. Con occhi di luce. Ti direi questo. Con occhi di luce. Questo cuore che esplode di colpo e senza preavviso, in ridondanti battiti, rivelandosi in assordanti silenzi e poi asincrone e generate implosioni atte a soffocare, a lenire dentro se stesse. Raccontiamoci un sogno. Prima ancora che il giorno ci colga fantasmi di un tempo che non fu da mai il nostro. Portandoci altrove a dormire. Questa mano vorrebbe toccare i tuoi petali sanando la vita che perdi dai graffi invisibili che porti, nel tuo dentro, culla di mille tempeste che dominasti tenendo le redini come funi di sangue evitando il naufragio. Ritrovar la purezza rubata da rapidi treni in veloci partenze. Ritrovarti. Questo vorrei. E ridarti a te stesso. Resto immobile e ascolto.

Come posso spiegarti il senso del niente, il vuoto che lasci quando non ci sei. Questi vetri infrangibili che dividono il tutto dal niente. Gli spessori non misurabili del sentire umano. Il calore che manca. Respirarti dal vetro sottile di una finestra che si affaccia su un mondo di plastica. Ha ripreso a piovere. Gocce in volto che sfiorano labbra mordicchiate coi denti in nervose distrazioni atte a palliare forme concrete di astruse verità, più cruenti e ingannevoli. Tuona e ho paura. Svegliami.

Come posso spiegarti il senso del niente, di una vita fatta di strade e di ponti, fra sguardi fuggenti di volti nell’ombra, dove si cerca una gloria dosata in secondi. Da collezionare. Di mani sui cazzi rigonfi di vanto, di vene che pompano sangue nel glande. Sapori che scordi nel giro di un attimo, di un viso soltanto, che è unico al mondo. Cercato fra mille e mai più ritrovato. Come posso spiegarti il mio senso e il mio niente. Di un cuore bastardo con graffi felini, che incide parole d’amore sul petto. E le firma con gusto in un sadico ghigno. Devo andare. Aspettami.

Vorrei tanto capire cos’è che impedisce di metterci in moto e partire, la natura invadente di questa tendenza a rimandare sempre tutto a domani. Non me lo so spiegare. Non è sempre stato così. Lo è stato solo a momenti. Ma ora è un momento che sembra durare da troppo. Sembra davvero che non ci sia mai tempo, in eterna attesa del momento ottimale per agire. Quasi fosse una convergenza cosmica, un allineamento planetario, un’eclisse. Sappiamo arriverà quel momento, ma non è adesso.

Se poi ti confronti con gli altri è la fine. Devi per forza pensarti unico e solo, sei costretto. Perché se espandi il pensiero nell’otre includendoci gli altri, finisce che cadi nel baratro del confronto, ti senti diverso da tutti e succede che muori ogni volta. Se ti pensi da solo riesci a gestirti, ad includerti dentro un pensiero cosciente e arginato, ma la mente non può contenere il pensiero di un mondo diverso da te. Devi per forza pensarti diverso e speciale, mirare e sparare a te stesso. È l’unico modo per restare lucidi. Evitando il genocidio.

So che a volte non mi credi per niente. Ti presterei gli occhi se potessi, per dimostrarti che quello che vedo è concreto e reale. Ti vorrei vestire con questa pelle. Per farti sentire che un brivido a volte brucia come l’alcool sopra una ferita. So che a volte non mi credi per niente. Certe volte non mi credo neanch’io. Ne ho bisogno per convincermi che certe ombre non ci hanno mai inseguiti. Ma cosa dovrei fare. Dilettarmi forse in suasivi monologhi assumendo seriose espressioni? Piuttosto sto zitto. Lasciandoti credere la bugia più vera. Non posso spiegartelo il senso del niente. Davvero, non posso.

Nello specchio un riflesso corroso e sbiadito mi guarda e mi chiede ricordi com’eri?

Ti ho già dato la faccia e i miei occhi e mi restano solo barbagli di luce stonata e distorta. Ho lasciato che il buio stillasse e assorbisse di te fino all’ultima goccia. Il contrasto del bianco sul nero sfumava nel nulla e tu ancora dormivi. Non ricordo più niente. Certe notti il silenzio è più fitto del nero che porti nel contorno degli occhi. Quelle notti in cui affondi e faresti qualsiasi cosa pur di ritrovarti. Certe notti mi parli all’orecchio suasivo e mi stringi la mano ed io immagino un mondo lontano. Dove vedo i tuoi sogni animarsi innocenti e giocondi i tuoi occhi di bimbo rincorrere sguardi inconsueti e distratti. E il tempo collide in orgasmi di luci radiose irrorate dai colori che crei. Poi ti volti e mi vedi lontano. Poi sorrido e non sono con te. Non fermarti. Rimani.

L’evidenza si fonde e si accorda con le note che il cuore vorrebbe sentire. E il cuore distorce il sottile vibrare dell’anima assorta in distratte euforie. Si nascondono intorno ai fantasmi di sempre. Non seguirmi. I miei passi conducono verso sentieri nebbiosi e incerti.

Certe notti mi parli all’orecchio suasivo e mi stringi la mano ed io immagino un mondo lontano. Ma non posso restare. Devo andare. Non dovresti aspettarmi.

Come posso spiegarti il senso del niente. Di un treno che transita senza arrivi e partenze. Tutti i pezzi mancanti. Gli impossibili incastri. Davvero vorresti restare?